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Guardare più in là

Cos’è il videoclip musicale?

Un video che accompagna una canzone. Vero.

Ma gli anni Novanta ci hanno dimostrato che era di più.

Facciamoci aiutare da un maestro. Jonathan Glazer.


Bevo ogni giorno / pensando di raffreddare la mia collera / ma non si raffredda mai.

Da un sostrato di scene surrealiste in un hotel di kubrickiana memoria, Glazer costruisce una storia che traduce in visioni una collera repressa, capace di esprimersi a metà tra allusione e allegoria. Il significato complessivo dell’opera sfugge a ogni re-visione, eppure restituisce lo spaesamento tipico di un “coma” attraverso cui sperare di raggiungere un raffreddamento, o “karma”.


Questo è il prossimo secolo / dove l’universale è libero / puoi trovarlo ovunque / sì, il futuro è stato venduto.

La metafisica di Kubrick torna in soccorso a Glazer per ricomporre il bar di The Universal / Arancia Meccanica. Succede tutto e niente, in questo zoo umano guidato dall’occhio orwelliano di una gigantesca palla da golf. Ogni punto di vista è assoluto – la telecamera lo rende di volta in volta protagonista – e al tempo stesso relativo, così come i quadri di gioia, lussuria, depravazione e privazione che di universale hanno un istante di lucidità: quello in cui la band, sopraffatta da un singhiozzo di libero arbitrio, contrasta il caos e si ferma.


Forma un cerchio / prima che noi tutti / affondiamo / e dissolviti di nuovo.

Per far scomparire qualcosa lentamente basta utilizzare il filtro “dissolvenza” e regolare la velocità? Troppo facile: qui c’è qualcosa di liquido che svela l’atto di affondare senza mostrare una goccia d’acqua. Thom Yorke "nuota" al rallenty in un ambiente amniotico, familiare e ostile, reale e fiabesco, bilanciato e no. Ma proprio quando lo sprofondamento sembra compiuto ecco l’ascesa, o piuttosto un'istantanea di apnea prima di dissolversi nell'abisso? Non lo sapremo mai.


Questo mondo deve cambiare / perché io non posso continuare.

Facciamolo cambiare, questo mondo racchiuso nella più asettica delle stanze, traduzione analogica di nuovi spazi virtuali. Facciamolo quando meno ce lo si aspetta, rovesciando gli equilibri (i mobili, le stanze stesse), regalando un battito di libertà (il corvo) e ricacciandoci sotto terra (gli scarafaggi). Glazer rilegge il pezzo sul piano “cinetico”: l’insania non è mai stasi, è una danza rutilante.


Non credo all’esistenza degli angeli / Ma guardandoti mi chiedo / se sia davvero così.

Quanta tenebra serve alla luce per illuminare? La domanda fa da sfondo ai volti che attraversano il video come facce d’angeli caduti, tra Caravaggio ed Helmut Newton, a cui la voce di Nick Cave restituisce ogni centimetro di spessore. Qui Glazer si allontana dall’intreccio per avvicinarsi a una trama di close-up fatti d’occhi, braccia, lacrime, tremori.


Due video diversi che è difficile scindere. Il primo, il più famoso del regista, rilegge la minaccia della polizia del “karma” (parola evidentemente magica per Glazer) attraverso una minaccia che incombe, un mistero lavato col fuoco che fa da preludio all’altro Mistero, quello appunto di “Rabbit”, dove non è un caso se a cantare è sempre Yorke. In entrambi "combattono" uomini e auto, ma la natura colpevole del primo si riflette nell’innocente ascetismo del secondo: un folle a caccia del “coniglio bianco” o un Figlio alla ricerca del Padre?


Ho passato la notte / guardando dentro me stesso / in una camera d’albergo.

Siamo davanti a un raro esempio di rispecchiamento totale di autore, messaggio e storia. La limpida disillusione negli occhi e nei testi di Ashcroft si fa plot, al punto da coincidere con un raffinato esercizio di distanza. Il cantante ascolta il suo brano provenire da uno stereo, lo canticchia distrattamente, lo interrompe come se sentisse la presenza di un intruso per poi accorgersi che nella sua camera è solo per davvero. Così Glazer, che avrà letto Lo straniero di Camus, spinge l'artista a estraniarsi come se la vita stessa piombasse per caso, poco prima di indietreggiare verso un orizzonte nero e ripetitivo.


A volte niente è giusto / se tu non sei qui.

Nemmeno un messaggero riesce a fare un annuncio senza tossire. Perché il protagonista implicito è l'errore: perfetto contraltare del video precedente, qui assistiamo al precipizio della disillusione verso la disperazione. La protagonista cade e ricade, prigioniera di una vita consumata nell'attesa, divorata dalla sete di oblio. La chiave è in una singola sequenza che ricorda le atmosfere di una perla che errori non ha: Vertigo. In quel precipitare dalle scale c'è un'esistenza di attese, dolori, errori che si consegnano al vuoto.


Fai finta di niente / fai finta di essere morto / fai l’indifferente.

La favola degli "opposti che si attraggono" non finiva lì. In realtà "si respingono e si annullano nell'indifferenza". Sembra questa la nuova lettura di Glazer: gli spari fanno sanguinare ma non uccidono, la violenza colpisce ma niente le impedisce di perpetrarsi. È la condizione che Hannah Arendt, a proposito dell’Olocausto, descrisse come “banalità del male”, qui riproposta in salsa rock. Qualunque sia l'effetto che voleva lasciarci, non sarà mai l'indifferenza.


Sì, Jonathan Glazer ci ha insegnato delle cose sui grandi videoclip.


Concentravano l’azione all’interno di uno spazio e di un tempo prestabiliti, attraverso un numero scientifico di azioni guidate da una logica narrativa indipendente dal contenuto sonoro, eppure ad esso connessa dal filo del messaggio. Insomma: un film la cui scintilla non è un’idea scritta su un copione, ma su un pentagramma.


Quello che poi si fa, quando si guarda più in là.




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